La storia del castello è intimamente legata a quella dei suo proprietari, la potente famiglia feudale dei conti Guidi, che lo abitarono per circa 400 anni.
Il primo documento scritto che attesta la presenza dell’abitato di Poppi è un contratto del 1169 redatto in castro de Puppio in loco Casentino. Del 1191, invece, è un Privilegio di Arrigo VI, con il quale l’imperatore conferma Guido Guerra V conte di tutta la Toscana e nel quale viene menzionato il castello stesso.
La prima fondazione del castello è però ascrivibile all’epoca dell’invasione longobarda, quando tutta la valle del Casentino fu protagonista di un generale fenomeno di incastellamento.
Il primo grande intervento si ebbe nel 1274, quando, per volere del conte Simone dei Conti Guidi da Battifolle, vennero iniziati dei lavori di ampliamento e ristrutturazione, poi terminati dal figlio Guido, che trasformarono il fortilizio in vera e propria residenza. Un altro importante intervento si ebbe a partire dal 1470, quando nel cortile interno venne edificata una splendida scala, quale accesso ai vari piani dell’edificio, e il recinto esterno. Sempre in questo periodo fu eretta sulla cinta esterna l’antiporta detta “della Munizione”, a difesa della Porta Leone. Inoltre venne scavato il fosso di separazione tra il castello e la piazza d’armi. L’ultimo importante restauro, risalente al secolo scorso, ha interessato gran parte della merlatura e della muratura e lo ha consegnato ai posteri nel suo magnifico aspetto attuale.
Sin dal XIII secolo, il Castello e il suo abitato rappresentarono uno dei più importanti e vivaci centri politico-economici dell’interno territorio casentinese, tanto che Poppi e fu sempre considerata una vera e propria “capitale” amministrativa della grande dinastia feudale dei conti Guidi. Tale importanza si mantenne anche sotto la successiva dominazione fiorentina, quando nel 1440 Francesco Guidi, che si era schierato con i nemici di Firenze, in seguito alla vittoria di quest’ultima sui Milanesi nella celebre battaglia di Anghiari, fu assediato nel suo castello, sconfitto e costretto alla resa.
Il castello è oggi sede del Comune di Poppi e prestigiosa area espositiva-museale.
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Rocca Calascio, situata a quasi 1500 metri di altitudine, vanta il primato di essere il castello a quota più alta e maggiormente conservato d’Italia.
Le prime notizie sul borgo di Rocca Calascio, citato come una delle cinque terre appartenenti alla Baronia dei Carapelle, si trovano nella Corografia Storica degli Abruzzi dell’Antinori, ma il primo documento nel quale viene citata la Rocca vera e propria, definita come torre di avvistamento isolata, risale al 1380. Si ritiene che quest’ultima sia di origine romana in virtù della sua posizione rispetto ai diverticoli tratturali e del tipo di conci lapidei costituenti la struttura portante. Successivo è l’involucro difensivo ricalcante la pianta quadrata del puntone con quattro possenti torri tonde angolari. Secondo recenti studi e approfondimenti si ritiene che questo intervento sia il prodotto della riconquista e del nuovo assetto difensivo, in area abruzzese, voluto da Federico II con la sua politica di riconquista delle terre a nord così come accaduto per la fortificazione di Termoli.
La rocca, come accennato, ebbe un notevole ruolo anche per il controllo dei tracciati minori del tratturo apparato primario dell’economia locale basata quasi esclusivamente sulla transumanza.
Nel secolo XV la rocca passò nelle mani dei Piccolomini e probabilmente, forse proprio ad opera di Antonio Piccolomini, venne realizzato il circuito fortificato posto a difesa dell’agglomerato urbano che era stato semidistrutto dal terremoto del 1461.
Nel 1579 Costanza Piccolomini, ultima discendente della famiglia, vendette i possedimenti, tra i quali Rocca Calascio, al Granduca di Toscana.
Nel 1703 un altro terremoto distrusse il castello e il paese sottostante. Questa volta però non si procedette ad una nuova ricostruzione e solamente le abitazioni poste nella parte più bassa vennero ristrutturate. Nel 1743 Rocca Calascio passò a Carlo III di Borbone, re di Napoli, ma il recente e devastante terremoto del 1915 ne aveva ormai segnato il declino inesorabile e il paese venne lentamente abbandonato, tanto che nel 1957 non contava più neppure un abitante.
Negli ultimi anni sono state restaurate alcune casette e in una di queste è oggi possibile alloggiare in un rifugio-ostello-ristorante. Ultimamente anche la Rocca è stata oggetto di restauri e consolidamenti che l’hanno resa visitabile al pubblico.
La nascita del feudo di Gambatesa e probabilmente del castello, va fatta risalire all’epoca dell’invasione longobarda. Notizie più precise si hanno a partire dalla metà del X secolo, quando si assistette ad un importante e documentato fenomeno di incastellamento. Nel 967, infatti, Pandolfo I Capo di Ferro, principe di Capua e di Benevento, concesse ai monaci di San Vincenzo al Volturno la facoltà di erigere castelli a difesa del territorio. Questa politica è ben comprensibile se si pensa che proprio Pandolfo, il più potente principe del Mezzogiorno, era diventato uno dei vassalli più fidati di Ottone I che, dopo essersi impadronito del regno d’Italia e aver ridotto il papato a suo vassallo, sognava di dare al regno unità politica abbattendo il dominio bizantino e sottomettendo i ducati longobardi. In seguito il feudo si trova citato nel Catalogus Baronum, un registro che elenca le terre concesse ai feudatari normanni a partire dalla seconda metà del XII secolo. Ma è dal XIII secolo, con Riccardo da Gambatesa o di Gambatesa, condottiero al servizio del re di Napoli, Roberto d’Angiò, che il feudo assume maggiore importanza. Grazie ai suoi meriti militari Riccardo ottenne feudi e riconoscimenti e, non avendo figli maschi, riuscì a far ereditare al nipote Riccardello, nato dal matrimonio della figlia con un Monforte, anche il cognome Gambatesa, dando il via alla casata dei Monforte-Gambatesa. Con l’avvento degli Aragonesi, il feudo passò ad Andrea di Capua, duca di Termoli. In questo periodo il castello subì profonde modifiche, trasformandosi in una splendida residenza fortificata, in linea con il clima rinascimentale, come testimonia lo splendido ciclo di affreschi che ornano il piano nobile del palazzo.
Negli anni ’70 il castello fu venduto al Ministero per i Beni Culturali e restaurato dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici del Molise.
La costruzione del grande castello, detto di San Michele dal giorno in cui presero ufficialmente il via i lavori, risale all’anno 1358, quando Nicolò II d’Este, sentendosi minacciato da una rivolta dei cittadini, esasperati da una nuova carestia e dalle restrizioni del governo, ne commissionò la costruzione all’architetto di corte, Bartolino da Novara.
La nuova costruzione sorse a ridosso della preesistente Torre dei Leoni, che venne inglobata nel nuovo edificio. Durante il regno di Ercole I (1471-1505), figlio di Nicolò II, il castello subì numerosi interventi soprattutto a livello decorativo, sia nelle parti interne che in quelle esterne. Nello stesso periodo vennero svolti importanti lavori di ampliamento lungo la direttrice che dalla vecchia struttura arrivava ai locali vicino alla Torre dei Leoni. Non solo, ad Ercole I va attribuito anche l’ampliamento delle mura cittadine, la famosa Addizione Erculea, che cambiò totalmente l’assetto urbano e collocò il castello al centro della città.
Nuovi ed importanti interventi si ebbero a partire dal 1534, quando Ercole II, succeduto al padre Alfonso I, li commissionò all’architetto e pittore Girolamo da Carpi, che trasformò definitivamente il castello in una vera e propria dimora principesca.
Nel 1570 un violento terremoto colpì la città e danneggiò il castello, che fu fatto restaurare da Alfonso II. Nel corso dei restauri fu commissionato anche un importante ciclo decorativo nell’Appartamento detto Dello Specchio.
Quando nel 1597 Alfonso II morì senza eredi, gli Este furono costretti ad abbandonare il castello e a trasferirsi nel vicino ducato di Modena. Il castello passò allora sotto il controllo dello Stato della Chiesa e divenne sede dei Cardinali Legati e da quel momento ebbe inizio la dispersione delle opere d’arte e degli arredi in esso contenuti.
Nei secolo XVII e XVIII non vi furono importanti interventi che ne modificarono l’aspetto.
Nel 1796 il castello fu occupato senza subire particolari cambiamenti dai Francesi di Napoleone e di seguito, nel 1813, dagli Austriaci vittoriosi. A partire dal XIX secolo, e fino all’annessione di Ferrara al Regno d’Italia, lavorarono al castello numerosi pittori che lo decorarono secondo gli stilemi del gusto ottocentesco. Il castello passò quindi al Demanio del Regno d’Italia e nel 1874, in seguito ad un’asta pubblica, alla Deputazione Provinciale, che lo destinò per quasi tutto il XX secolo a edificio di rappresentanza e sede di istituzioni statali ed enti locali.
È opinione ormai consolidata che il castello sia sorto su un originario sito fortificato sannitico, seppur documenti certi d’archivio evidenziano una presenza fortilizia solo dall’epoca di Alboino, intorno al 573 d.C. Alcuni storici ritengono invece che la costruzione sia posteriore alla suddetta datazione, e cioè risalente all’epoca di Carlo Magno (810 c.a.) o a quella di Corrado il Salico (1024).
Alcune testimonianze riferiscono che con la discesa di Federico II il territorio di Pescolanciano era governato da un feudatario, Ruggero di Peschio-Langiano, che ricevette ordine dallo Svevo di rimuovere i Caldora di Carpinone, smantellando il loro castello e di assediare Isernia e quei feudi ostili a re Federico. Tale spedizione fu di sicuro organizzata nel fortilizio allora esistente e da esso prese le mosse nel 1224. Il feudo, confinante col vicino borgo di S.Maria dei Vignali, abbandonato dopo il terremoto del 1456, era attraversato da un importante nodo di comunicazione, che collegava le alte località dell’Appennino centrale abruzzese con quelle costiere del “Tavoliere di Puglia”.
Il castello di Pescolanciano, arroccato su uno sperone di roccia ai piedi del monte Totila, sotto il quale si sviluppò il borgo medioevale con le sue mura perimetrali con accessi all’abitato tuttora visibili, assolse a questi compiti di difesa e ospitalità sia sotto i feudatari Carafa che sotto gli Eboli sin dal XIII secolo. Queste secolari funzioni del borgo e del suo maniero ricevettero “nuovo impulso” con l’avvento di nuovi feudatari. Il feudo di Vignali e Pescolanciano fu tra il 1576 e il 1579 alienato da Andrea d’Eboli o sua nipote Aurelia a Rita Baldassarre, moglie di Giovanni Francesco d’Alessandro, dell’illustre Casato napoletano del Sedil di Porto che conta tra i suoi ascendenti un Templare Guidone, crociato in Palestina nel 1187, valenti ambasciatori del Regno Angioino e Aragonese, nonché l’illustre giurisperito-umanista del XV secolo, Alessandro d’Alessandro, discepolo del Fidelfo ed autore dei “Dies Geniales”. La baronia di “Pescolangiano” con i suoi feudi rustici limitrofi divenne ducato nel 1654 sotto il sesto barone Fabio Jr.(1628-1676) di Agapito (1595-1655). A questo personaggio si fanno risalire i primi lavori di abbellimento, ampliamento e di consolidamento della struttura fortilizia, che fino ad allora doveva essere stata composta da una torre mastio ed una cilindrica, nonché da un corpo a “bastione” merlato a “scarpa”. Al citato personaggio e suo padre si attribuiscono una serie di interventi di modifica dell’originaria configurazione del castello. L’ingresso, in principio presso la torre mastio lato nord-est, al quale si accedeva probabilmente utilizzando scala retrattile, venne chiuso e riaperto con ponte levatoio, finito nel 1691. Il cortile esterno, precedentemente a gradoni rocciosi, fu fatto spianare in questo periodo e sempre a tale periodo risalgono le costruzioni dette “pertinenze”, tra cui la “guardiola” con il suo balcone seicentesco arabescato. Fu anche costruita una chiesetta gentilizia al centro del fortilizio, i cui lavori di arricchimento con marmi intarsiati, decorazioni a stucco e dipinti vennero ultimati nel 1628. Il luogo sacro, per volere del duca Fabio Jr., ospitò dal 1673 alcune reliquie del corpo del martire cristiano S.Alessandro di Bergamo, pervenute da Roma con bolla papale e celebrate con antico rituale.
L’abitato di Pizzighettone sorge sulla sponda sinistra dell’Adda, fronteggiato, sulla sponda opposta, dal corrispondente nucleo fortificato di Gera. Sfruttando le particolari difese naturali dovute alla confluenza del Serio Morto con l’Adda, il luogo venne munito di castello e mura fin dal secolo XII.
I Visconti, nella seconda metà del Trecento, potenziarono (e forse in gran parte ricostruirono) il castello quindi, nella prima metà del Quattrocento, rafforzarono anche le mura del borgo.
Sotto la dominazione spagnola Pizzighettone ha assunto il ruolo di fondamentale caposaldo, insieme a Lecco, Lodi e Cremona, di quella linea difensiva che i padroni di Milano hanno attestato sull’Adda e sul Po in contrapposizione a Venezia.
Nel 1639 viene eseguito il taglio dell’Adda in corrispondenza del centro abitato di Pizzighettone su progetto del Barattieri “…cò quali sarà ridotto il fiume à camminar rettamente…” con l’evidente scopodi far “cadere” le acque del fiume contro il forte di Pizzighettone per renderne più sicura la difesa. Come conseguenza a tale intervento, a partire dal 1646, le mura urbane vengono circondate da un nuovo anello di bastioni.
In seguito, durante il promo dominio austriaco e per ordine di Carlo VI, è stato dato corso, a partire dal 1720, a una riforma generale delle fortificazioni di Pizzighettone, con la costruzione di una poderosa cinta bastionata a occidente dell’abitato di Gera e con il rafforzamento delle mura medioevali viscontee attraverso l’aggiunta alle stesse di una corona di casematte in muratura, di apprestamenti difensivi vari e di un’ampia fossa difensiva esterna.
Dopo gli smantellamenti ottocenteschi e la cancellazione di parte delle bastionature seicentesche dovuta alla massiccia espansione dell’abitato verso oriente, oggi si conservano solo parti, peraltro significative e consistenti, dell’imponente sistema difensivo di Pizzighettone: tracce del castello, le casematte a ridosso delle antiche mura, il rivellino a guardia della strada per Cremona, le casematte, i bastioni e le opere terrapienate di Gera.
Il castello medioevale-visconteo. Di questo castello, che sorgeva in fregio all’Adda e che era protetto a settentrione da un ramo del Serio Morto, si può ancora individuare l’antico sedime nell’area compresa tra il fiume e le attuali piazze della Vittoria e Cavour. Si sono conservate l’imponente torre del Guado e solo in parte (in quanto cimata) la torre della Bandiera, o torre del Governatore, detta anche “torre mozza”.
La cerchia di casematte sulla corona delle antiche mura. Costituisce la parte più significativa e a tutt’oggi più consistente delle difese settecentesche di Pizzighettone. Comprende la porta del Soccorso, ubicata all’estremità meridionale del recinto sulla sponda dell’Adda, la contigua polveriera di San Giuliano, le rampe di salita interne al recinto, la fossa difensiva esterna (ancora in gran parte integra lungo il tratto sudorientale) e porta Cremona nuova, sulla strada per Cremona.
Il rivellino all’ingresso di porta Cremona nuova. È una poderosa opera avanzata a pianta semicircolare, sporgente verso la campagna dalla cerchia di casematte circa all’altezza della chiesa parrocchiale di San Bassiano. Fungeva appunto da rivellino, cioè da fortificazione interposta tra due fossati e due ponti levatoi, a protezione dell’ingresso di porta Cremona vecchia. Si è conservato integro nelle sue strutture murarie.
Le casematte di Gera. Appartenevano anch’esse alla cinta bastionata settecentesca, parzialmente smantellata nell’Ottocento, che avvolgeva l’abitato di Gera e che era rafforzata all’esterno da due mezzelune anteposte alle corrispondenti fronti occidentali e da altre due mezzelune rispettivamente anteposte alle ali settentrionale e meridionale. Si sono conservati due tratti occidentali, con dosso in terra.
Il fossato di Gera. La fossa che proteggeva il lato a campagna delle difese settecentesche è oggi quasi totalmente colmata; se ne conserva ancora un breve tratto aperto a settentrione dell’abitato di Gera. Ad occidente del fossato, in località Cascina Macallé e già nel territorio del comune di Maleo, in provincia di Milano, è ancora oggi riconoscbile sul terreno un rilievo bastionato, corrispondente forse a un avamposto delle difese settecentesche.
La torre del Guado. È la più importante e meglio conservata testimonianza dell’imponente castello visconteo che sorgeva in fregio all’Adda, sul luogo di un più antico fortilizio medioevale. Il resto della fortificazione venne demolito nei primi decenni dell’Ottocento.
Il nome deriva dal fatto che la torre, essendo sull’angolo sudoccidentale del castello, sorgeva in prossimità del punto di attraversamento del fiume. L’edificio presenta pianta quadrata, struttura muraria in mattoni a vista ed è coronato da un apparato a sporgere costituito da slanciati beccatelli in mattoni disposti ad aggetto progressivo. Attualmente è utilizzato come sede del Museo Civico ed è in buono stato di manutenzione.
L’Amministrazione comunale di Pizzighettone, in vista del definitivo trasferimento al Comune di quella parte delle mura ancora di proprietà del Genio Militare, ha allo studio un piano di riutilizzo di tutte le strutture fortificate o loro resti, sopra descritte, in stretto coordinamento alle iniziative di restauro in corso e da intraprendere in futuro, con l’obiettivo di favorire la massima fruizione, conoscenza e valorizzazione di un complesso bastionato tra i più importanti e significativi della Lombardia. Nel frattempo l’opera è mantenuta e valorizzata da un eccellente gruppo di volontari che ne curano per quanto possibile le strutture e la loro conoscenza e vitalizzazione.
Nel 2007 è iniziata una nuova fase di recupero delle fortificazioni di Gera da parte del Gruppo Volontari Mura, in accordo con la Soprintendenza dei Beni Architettonici di Brescia, Cremona e Mantova. Ad una ditta specializzata sono stati appaltati i lavori di movimentazione della terra per ripristinare l’antico Bastione di Caracena, monumento con base in mattoni e copertura in terra, datato alla metà del Seicento, coevo alla cerchia muraria di Gera, spianato nella parte superiore in terra negli anni Trenta dal Genio militare, e che oggi sta finalmente per tornare alla originaria conformazione.